Tribuna

Vincenzo Lippolis

L’unità nazionale in un periodo di emergenza può essere considerata sotto tre aspetti: come coesione sociale, come unità di intenti tra le forze politiche e come azione consonante delle istituzioni.

Da marzo ad oggi (la fase 1) gli italiani hanno dato una risposta unitaria alla prova cui sono stati sottoposti. Una prova dura ed imprevedibile che ha mostrato come nei frangenti più difficili il senso civico può prevalere. Non si può nascondere tuttavia che l’osservanza ai rigidi divieti cui i cittadini sono stati sottoposti è stata favorita da una certa dose di paura delle conseguenze della trasgressione. Tutto sarà più difficile d’ora in avanti (fase 2). Lo slogan del governo (“Nessuno sarà abbandonato”) dovrà fare i conti con una recessione storica. La sua carica retorica si dovrà confrontare con una realtà economica che sicuramente provocherà insoddisfazioni e risentimenti in strati sociali e categorie produttive che si sentiranno esclusi. Non si può dire se ciò provocherà lacerazioni nel tessuto sociale. Ma la strada dei sussidi apre una competizione per ottenerli e se non è accompagnata da un rilancio della produzione porrà il problema del rientro dal debito. Qualcuno dovrà pagare. E la coesione nazionale sarà messa a dura prova.

Sul piano dell’azione delle forze politiche, senza voler prendere posizione tra dove sia il torto e dove la ragione, si deve registrare che maggioranza e opposizione hanno continuato a scontrarsi con toni ruvidi. Vi sono stati anche contrasti all’interno della maggioranza. Insomma, rivolgendosi reciproche e contrastanti accuse e recriminazioni, ognuno è sembrato preoccuparsi troppo degli assetti del dopo emergenza e dei possibili, vantaggiosi posizionamenti per il futuro. Non abbiamo avuto l’ormai mitica “unità nazionale” dei tempi della lotta al terrorismo.

Sul piano istituzionale, non si può dire che i rapporti tra governo e regioni abbiano dato il senso di unità di intenti e di efficace coordinamento. Anzi, credo che, soprattutto ai cittadini ignari e non tenuti a conoscere tutti i complicati risvolti della divisione di competenze tra centro e periferia, si sia trasmessa una sensazione di conflittualità e di divisione, di un’Italia divisa. Alcuni presidenti di regione hanno operato come se fossero indipendenti dal potere centrale. Abbiamo ascoltato proclami di divieto di ingresso nel territorio regionale come se non ci fosse l’art. 120 della Costituzione che lo vieta espressamente. Ai decreti del presidente del consiglio sulle limitazioni alle libertà costituzionali (non su una sciocchezza qualsiasi) si sono contrapposte ordinanze dei presidenti di regione e, a volte, anche di sindaci. Il governo, che pure avrebbe potuto scegliere la strada di un annullamento diretto, in due occasioni ha preferito il ricorso alla giurisdizione amministrativa ottenendo soddisfazione nei riguardi delle regioni Marche e Calabria. Quanto alla legge con la quale la provincia di Bolzano anticipava alcune riaperture, ha annunciato il ricorso alla Corte costituzionale. Prosegue quindi il conflitto nelle sedi giudiziarie esploso a partire dalla riforma del titolo V della Costituzione.

A fronte di questa situazione autorevoli commentatori hanno chiesto la previsione in Costituzione di una clausola di supremazia che faccia prevalere l’interesse nazionale. Sono state anche immediatamente presentate due proposte di revisione costituzionale. In effetti, uno dei maggiori difetti della riforma del 2001 è stato quello di aver cancellato dal testo della Costituzione la nozione di interesse nazionale. Fu un errore grossolano: ogni sistema federale o di regionalismo avanzato prevede la possibilità di superare in determinate situazioni la divisione di competenze per materie con una procedura che faccia prevalere gli interessi unitari. Insomma è una proposta fondata che ha intenti lodevoli. È necessario però considerare altri due aspetti. In primo luogo, richiedere riforme costituzionali, anche giuste, in situazioni di emergenza non risolve nell’immediato il problema. Non si vede come nell’attuale situazione si possa procedere in tal senso e la loro prospettazione rimane un pio desiderio. Del problema dell’assenza di una clausola di supremazia nella Costituzione si sono occupati progetti di riforma abortiti nel corso del tempo, a partire da quello bocciato nel referendum del 2006 e per finire con quello respinto con il referendum del 2016. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. È necessario continuare ad operare con gli strumenti che la cassetta degli attrezzi a disposizione offre. E così veniamo al secondo aspetto. La lacuna della nostra Costituzione fa sentire i suoi effetti sull’esercizio della funzione legislativa. Sul piano dell’azione amministrativa opera la previsione, all’art. 120, del potere sostitutivo del governo nei confronti delle regioni. Un tale potere avrebbe potuto essere esercitato nelle vicende dell’emergenza coronavirus, ma il governo ha preferito la strada giurisdizionale. Insomma, il problema è stato di natura politica. Indicazioni più chiare e stringenti da parte del governo, un comportamento più responsabile dei presidenti di regione, un più efficace e tempestivo confronto e raccordo tra centro e periferia avrebbero evitato l’impressione di un paese disarticolato e lo sconcerto tra i cittadini, disorientati da indicazioni diverse, se non addirittura contraddittorie.

Negli ultimi giorni una faticosa trattativa ha portato ad un migliore equilibrio delle diverse istanze. Ma le difficoltà non scompaiono e nella conferenza stampa del 16 maggio, a proposito del rapporto stato-regioni, il presidente del consiglio ha detto: “È un assetto che deve registrare qualche manutenzione: non mi concentro sulle proposte, ma credo sarà giusto fermarsi a riflettere e valutare se si può migliorare qualcosa in questa divisione di competenze”. È un buon proposito per il dopo emergenza, anche se si può nutrire qualche fondato dubbio che vi sarà un clima adatto ad una riforma di tale portata. Nel frattempo ci accontenteremmo di comportamenti più virtuosi da parte di tutti.

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