Tribuna

Tania Groppi

Cosa ci dicono i primi sei mesi della pandemia da COVID-19 sull’unità nazionale italiana e specialmente sui rapporti tra i livelli di governo?

Parto da lontano. La vita delle comunità umane e degli ordinamenti attraverso i quali si organizzano può essere esaminata secondo una delle grandi dicotomie che strutturano il pensiero umano, la coppia ordinarietà/straordinarietà. Non c’è dubbio che quel che è accaduto da gennaio 2020 si colloca sul secondo versante: l’emergenza COVID esorbita dalla normalità, regolarità, ordinarietà delle cose e ci trasporta in un’altra sfera, come abbiamo purtroppo avuto modo di sperimentare in questi mesi.

È mia convinzione – mi allineo in questo a quanto rilevato da molti psicologi e psicologi sociali – che nei momenti straordinari o di crisi, senza che ci sia bisogno qui di evocare l’etimologia di questa assai utilizzata parola, si enfatizzino i punti di debolezza o di forza, tanto degli individui che dei gruppi umani e delle loro organizzazioni: di solito situazioni di difficoltà rimaste latenti vengono alla luce e diventano impellenti, mentre nei casi più fortunati si scopre di disporre di risorse inattese o sottovalutate.

Pertanto, nelle emergenze, niente di nuovo sotto il sole. O, meglio, niente di qualitativamente nuovo, ma soltanto una moltiplicazione o accelerazione di processi già in atto.

Mi sembra che questo approccio ben si presti a chi voglia cercare di leggere, ancora a caldo, quel che è accaduto nei rapporti tra lo Stato e le autonomie territoriali nell’emergenza sanitaria. Nel senso che sono state, per l’ennesima volta vorrei dire, evidenziate le contraddizioni e lacune del regionalismo italiano, come si è venuto configurando in questi cinquant’anni (se consideriamo la creazione delle regioni ordinarie, ma dovremmo risalire ancora più indietro). Ma forse, chissà, è emerso o sta emergendo anche un inatteso punto di forza. Vediamo.

Contraddizioni e lacune. L’incerto regionalismo italiano – incerto fin dall’Assemblea costituente e già dal Risorgimento – è andato evolvendosi tra flussi (di decentramento) e riflussi (di accentramento) fino ad approdare alla revisione costituzionale “quasi-federale” del 2001 e al suo successivo, rapido svuotamento, ulteriormente accentuato dalla crisi economico-finanziaria del 2008. La sfasatura venutasi a delineare tra regioni dotate di apparati amministrativi elefantiaci, di vertici politici vistosi ed esuberanti (non a caso ormai noti come ‘governatori’), di rilevanti (sulla carta) competenze costituzionali, da un lato, e, dall’altro, la pochezza degli output, la debolezza delle identità regionali, la modestia del personale politico, la limitatezza delle competenze effettive era ben chiara già prima dei recenti eventi. Così come era chiara una lacuna: l’assenza di adeguati meccanismi di raccordo e collaborazione tra i livelli di governo. Due temi non a caso affrontati (sia pure con soluzioni perfettibili) dalla revisione costituzionale naufragata nel referendum del 2016.

Ebbene, il COVID ha ulteriormente sottolineato questi aspetti di incertezza e difficoltà, tanto più che si è trattato di un’emergenza sanitaria, che è andata a colpire una delle materie nelle quali l’intreccio delle competenze è più marcato: la sanità è in Italia, a differenza di quanto accade in molti altri paesi, la principale competenza delle regioni, sia perché ad essa è dedicata la gran parte dei bilanci regionali, sia per lo spazio che l’autonomia regionale trova nel definire i modelli organizzativi. Nemmeno a tavolino si sarebbe potuto ipotizzare uno stress-test più indovinato per il regionalismo italiano. Purtroppo, però, non si è trattato di uno scenario ipotetico, ma di una dolorosa realtà. E proprio la realtà ha evidenziato la tensione tra esigenze di uniformità e di differenziazione, proprio quelle esigenze cioè che stanno alla base della scelta regionale: necessità di garantire in modo uniforme i diritti, in particolare proprio il diritto alla salute e alla vita, che non ammettono differenziazioni su base territoriale; necessità di tener conto delle differenze nella diffusione del contagio, e quindi di adottare scelte differenziate proprio su base territoriale, specie nella limitazione dei diritti civili e politici che ha accompagnato le misure anti-COVID.

Qui le questioni sono soprattutto due. Risponde l’attuale assetto del riparto delle competenze a un “ragionevole” rapporto tra uniformità e differenziazione? Ragionevole nel senso: sono attribuite al livello statale adeguate competenze per garantire quei diritti che debbono essere assicurati in modo eguale in una Repubblica che è, e deve essere, “una e indivisibile”? E sono attribuite al livello regionale le competenze che richiedono invece una differenziazione territoriale, in una Repubblica che “riconosce e promuove le autonomie locali”? Insomma, la prima questione riguarda l’adeguatezza dell’assetto delle competenze esistente, risultante dalla revisione costituzionale del 2001 e dalla successiva giurisprudenza costituzionale. Seconda questione, secondo nodo istituzionale irrisolto: abbiamo assistito a un incredibile balletto di cifre, di epidemiologi, di conferenze stampa, per non dire di ordinanze spesso contraddittorie e immotivate, il tutto proprio su base territoriale, regionale e finanche comunale. Non si può negare, come mostra anche il confronto con altri Stati decentrati, la Germania in primis, che in parte questa confusione è il prodotto della mancanza di un’adeguata normativa statale sulle epidemie. Tuttavia, essa ha messo in luce l’esigenza non più rinviabile di un coordinamento tra i livelli di governo, a meno di non considerare le telefonate o le videoconferenze tra il Ministro degli affari regionali e i presidenti delle regioni una forma adeguata di ‘leale collaborazione’. Una istituzionalizzazione di idonee sedi di collaborazione che vadano oltre la conferenza Stato-regioni e possano declinarsi in forme varabili, più strutturate e includenti (penso all’emarginazione da questi raccordi delle opposizioni a livello regionale), ma anche se necessario più agili (penso qui a una sorta di task force partecipata) è a mio avviso evidente.

Fin qui le debolezze notorie del regionalismo italiano, che, lo ripeto, sono venute ancora una volta alla luce, ancora una volta per chiedere risposte in termini istituzionali. C’è lavoro per i politici e per i giuristi, che però debbono muoversi con la consapevolezza che non si tratta di un esercizio di “ingegneria costituzionale”. Questi mesi ci hanno fatto fare esperienza, qualora ce ne fosse stato bisogno, delle ricadute che l’assetto istituzionale ha sui diritti, ovvero detto con altre parole sulle vite concrete delle persone. Non ce lo dobbiamo dimenticare.

Tuttavia, volendo vedere i punti di forza, credo che sia emerso in questi mesi un importante aspetto, spesso sottovalutato, che riassumerei come “la forza dell’identità repubblicana”. Intendiamoci: i c.d. ‘governatori’ che hanno cercato di chiudere le frontiere regionali ai ‘cittadini’ di altre regioni hanno pensato di interpretare il sentire dei propri elettori. Ma mi sentirei di avanzare perlomeno il dubbio sul fatto che lo abbiano davvero intercettato. Mi pare invece che i cittadini italiani abbiano ignorato tali sirene, preferendo rivolgersi alla Repubblica e ai principi che ne connotano l’identità: con questo spirito, o, per meglio dire, sulla base di questi principi, in primo luogo quelli di protezione della vita umana e di solidarietà, anche tra generazioni, hanno accolto e rispettato le pesanti limitazioni dei diritti e si avviano ad affrontare le conseguenze economiche. In altre parole, mi pare che l’emergenza abbia dato elementi a chi sostiene, non da ora, che c’è una identità italiana profondamente unitaria che si fonda sui principi costituzionali e che bypassa i confini delle regioni e le loro classi politiche. Una identità che, appunto, definirei repubblicana e che trova la sua espressione ‘naturale’ e per fortuna costante nel Presidente della Repubblica, ma che cerca proiezione e risposte negli organi della rappresentanza politica, in primo luogo nel parlamento e poi, di conseguenza, nel governo. Cerca risposte che purtroppo da molto, troppo tempo non trova, in una classe politica svuotata dalla crisi dei partiti e azzoppata da sistemi elettorali penalizzanti. Questa identità trova il suo nutrimento, il suo humus altrove, fuori dalla politica, nella lingua, nella cultura, nell’arte, nell’istruzione, e anche in principi e valori comuni: sia pure non sempre consapevolmente, quelli costituzionali, voglio credere, primi tra tutti la solidarietà e il rifiuto della violenza, che si radicano nel costituzionalismo del Secondo dopoguerra e che sono anche alla base del progetto europeo.

In conclusione, non solo i noti punti di debolezza, ma anche questa nostra identità repubblicana che a me pare il nostro punto di forza, debbono invitare a una riflessione e a un’azione, nella direzione del ripensamento di una serie di aspetti istituzionali (riparto di competenze; strumenti di collaborazione; rappresentanza politica) che restano i nodi irrisolti di quella comunità umana che ci pregiamo di chiamare “Repubblica italiana”.

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