Tribuna

Pietro Maffettone

Stato o mercato?

La Grande Recessione del 2008-2009 e la recente crisi pandemica hanno riportato in auge l’intervento attivo dello stato nelle economie di mercato. Dalla politica monetaria a quella fiscale, si scardina la visione neoliberale incentrata su mercati che si autoregolano. In che modo va letto ed interpretato questo cambio di paradigma? Prendendo in prestito un’immagine da Karl Polanyi, possiamo dire che il pendolo dei sistemi produttivi occidentali ritorna verso forme di economie in cui i mercati diventano maggiormente ‘embedded’. Questo cambiamento ha due effetti principali. In primo luogo, ci rammenta una lezione importante riguardante il rapporto fra stato e mercato. In secondo luogo, ci offre un’opportunità da non sprecare, ossia quella di ridare centralità alla giustizia sociale.

Procediamo con ordine. Il progetto neoliberale di un mercato senza Stato, va detto con grande franchezza, è intellettualmente insostenibile. Come ci hanno insegnato gli economisti classici (da Smith a Marx, passando per Ricardo e Mill), lo Stato deve intervenire nel mercato per permetterne il funzionamento. Lo stesso Einaudi (che di certo aveva ben interiorizzato la lezione degli economisti più liberisti), era del tutto consapevole che il mercato non può esistere senza istituzioni fondamentali che del potere pubblico sono storicamente prerogativa esclusiva. In primis, i diritti di proprietà e la loro difesa tramite l’uso della forza. Lezione, questa appena accennata, fatta propria e ampliata dalle prospettive istituzionaliste e neo-istituzionaliste (si pensi ad autori come Veblen, North, Ostrom e, più di recente, Acemoglu e Robinson).

Inoltre, non sarebbe del tutto improprio affermare che una buona parte della teoria economica non ortodossa del secondo Novecento ha sostenuto la necessità dell’intervento pubblico nei sistemi economici. Guardando ad approcci parzialmente alternativi alla teoria neoclassica, contributi come quello offertoci dalle visioni di ispirazione keynesiana della macroeconomia, oppure della behavioural economics in microeconomia, hanno certamente minato il sogno di vedere, nel mondo reale, il realizzarsi spontaneo degli ideali della welfare economics.

Ma è la stessa teoria neoclassica, per come si è andata a sviluppare negli ultimi 5 decenni (e invero da Pigou in poi), che ha fatto emergere un numero crescente di quelli che in gergo si chiamano fallimenti di mercato, ossia tipi di circostanze dove il libero mercato, se non corretto dall’intervento pubblico, produce risultati non ottimali dal punto di vista dell’efficienza complessiva del sistema. Esempi comuni hanno a che vedere con le esternalità, le asimmetrie informative, e la presenza di forme di mercato non concorrenziali.

E veniamo all’opportunità che ci viene offerta. Il fondamentalismo del mercato, come lo ha chiamato Dani Rodrik, ha provato a scavare un solco fra economia e società, rappresentando la prima come ambito tecnico e de-politicizzato. Le conseguenze di lungo periodo di una tale visione, come lo stesso Polanyi sosteneva e come il recente riemergere di movimenti populisti ha sostanzialmente confermato, mettono a repentaglio la stabilità dei sistemi liberal democratici. I cittadini, stanchi di essere assoggettati a logiche economiche che li vedono come mere pedine da sacrificare, si gettano nelle braccia di chi promette loro di domare il mercato ora e per sempre. E questo avviene al netto della plausibilità delle soluzioni offerte, o dei mezzi, spesso moralmente e politicamente nefasti, proposti.

Nella breccia ideologica e cognitiva che si sta aprendo si può e si deve, invece, riportare il tema della distribuzione delle risorse economiche al centro del dibattito pubblico e, tramite questo, sottoporlo al vaglio di criteri di giustizia sociale. Giustizia qui intesa come redistribuzione delle risorse generate con l’aiuto del mercato, ma anche come pre-distribuzione, ossia come alterazione delle regole del gioco e della distribuzione iniziale degli asset in modo da favorire, ad esempio, una maggiore eguaglianza di opportunità. Questa, in sintesi, la lezione di Rawls, ma anche di economisti come Meade e più di recente Atkinson e Piketty.

Le sfide che attendono i paesi occidentali sono invero assai complesse. Una gestione più consapevole dell’integrazione economica globale e del cambiamento tecnologico, ma anche una politica condivisa ed efficace per evitare le conseguenze del cambiamento climatico, rappresentano soltanto alcune di esse. Sono però sfide che vanno affrontate non unicamente in nome dell’efficienza e della crescita economica, ma anche dell’equità e dello sviluppo sostenibile. Non farlo ci esporrebbe certamente a un fallimento di tipo etico e morale, ma anche politico-istituzionale, di portata storica.

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