Tribuna

Paolo Ridola

Il tempo della pandemia, come sempre i frangenti di crisi, interroga davvero sui fondamenti costituzionali ed il significato più profondo di una cittadinanza repubblicana. Proporrò qualche rapida riflessione sulle questioni di appartenenza e di identità che la vicenda drammatica che stiamo vivendo solleva. Sullo sfondo di questa riflessione si intravvedono i problemi costituzionali al centro del dibattito politico e scientifico di questi giorni, dalla gestione delle emergenze al ruolo del Parlamento, dal rapporto con le autonomie alla tenuta dell’impianto delle garanzie dei diritti e del sistema delle fonti. Ma la crisi sollecita ad andare più a fondo, ed a rimeditare le basi costituzionali del rapporto tra il principio libertà, colpito dalle misure di lock down, ed il principio responsabilità, cardine di una cittadinanza repubblicana.

Nell’intervista al Tagesspiegel del 26 aprile, il presidente del Bundestag tedesco Wolfgang Schäuble, commentando le misure di lock down adottate dal Governo federale, ha sostenuto che non tutto può essere subordinato alla protezione del diritto alla vita. La lettura dell’intervista che ne ha dato la stampa italiana (penso all’editoriale di Giuliano Ferrara su Il foglio del 29 aprile) non ha colto in modo fedele il contenuto delle posizioni dell’autorevole uomo politico tedesco. Egli non ha sostenuto che l’assolutezza della protezione del diritto alla vita, imponendo la limitazione di altri diritti fondamentali e in sostanza il diritto di ogni individuo di scegliere liberamente come orientare il destino della propria esistenza, finirebbe per operare un vulnus della dignità dell’uomo, che la Legge fondamentale tedesca considera bene supremo dell’ordinamento costituzionale. Ed invero, come mi è accaduto di sostenere più volte, una lettura del rapporto tra il principio libertà ed il principio dignità nei termini di una antitesi potenzialmente radicale non è soltanto estranea all’imponente riflessione costituzionale tedesca, nella quale radicamento della dignità dell’uomo in un Menschenbild e autodeterminazione individuale, assolutezza della Menschenwürde e inserimento di questa in una dimensione sociale e di reciproco riconoscimento affannano da decenni  non solo il dibattito teorico, ma quello giurisprudenziale, che si è aperto negli ultimi anni alla ponderazione tra intangibilità della dignità dell’uomo e diritti fondamentali anche con riferimento al diritto alla vita, come nella notissima decisione del Bundesverfassungsgericht sulla legge sulla sicurezza dei voli.

Mentre l’affermazione di Schäuble sulla bilanciabilità del diritto alla vita con altri beni costituzionali è quasi banale per il costituzionalista, maggiore attenzione meritano altri passaggi dell’intervista. In primo luogo quello sul rapporto tra le indicazioni della comunità scientifica e le responsabilità del decisore politico, che balzano in primo piano, come aveva intuito Tocqueville in una pagina della Democrazia in America, quando la pressione si allenta e problemi di natura economica, sociale e psicologica si affiancano a quelli dell’emergenza sanitaria (come è stato più volte rilevato nel dibattito italiano, ed in particolare in un editoriale di Angelo Panebianco su Il corriere della sera del 4 aprile), imponendo anzitutto alla classe politica di farsi parte di un “processo di ponderazione di differenti punti di vista”. Ma ancora più interessante mi sembra un secondo passaggio dell’intervista, con un richiamo forte del politico tedesco alla responsabilità come principio basilare che deve unire una comunità politica, soprattutto in frangenti drammatici come quelli che stiamo vivendo. Nei quali siamo tutti chiamati a sentirci Verantwortliche, la comunità scientifica, la classe politica, i cittadini.

Ho preso le mosse di qui per svolgere qualche riflessione sui temi cruciali che la pandemia ha squadernato drammaticamente dinanzi allo studioso, i quali toccano ad un tempo il significato più profondo dell’appartenenza ad una comunità politica, quella virtù civile che già Machiavelli considerò come il perno della dignità degli uomini di una comunità secolarizzata e repubblicana, ma anche la capacità di una costituzione, dei suoi equilibri e delle sue garanzie, di essere, in particolare nei momenti più drammatici della vita di una comunità politica, il luogo fondamentale della unificazione politica del corpo sociale. In coerenza con uno spirito di cittadinanza, attraverso il quale tutta una comunità politica coopera attivamente all’attualizzazione quotidiana dei principi costituzionali di una casa comune.

Ho letto con perplessità articoli, lettere aperte, prese di posizione di colleghi costituzionalisti sulle misure adottate dal Governo per fronteggiare la pandemia. Sono ben consapevole che il dramma che stiamo vivendo solleva interrogativi delicati sulla gestione organizzativa delle emergenze, a causa della lacuna costituzionale sugli stati di emergenza, sulla tenuta dei principi di una democrazia parlamentare, o ancora sul fronte di una costruzione di un rapporto tra stato e regioni sorretto dal principio di sussidiarietà, rivelatasi a dir poco ardua, o infine su quello della valutazione della tormentata filiera dei decreti governativi alla luce delle garanzie della riserva di legge. Profili che non sottovaluto, anche negli aspetti problematici che hanno rivelato nelle scelte e nei comportamenti degli attori istituzionali. E peraltro ritengo che nel giudizio di questa vicenda, che tocca davvero i principi fondamentali di una comunità politica, non ci si debba limitare a segnare con matita rossa o blu i provvedimenti adottati, levando alti lai sui rischi di una regressione della tutela dei diritti e di possibili derive autoritarie. Peter Häberle ci ha insegnato che la costituzione non è solo un testo normativo, ma che essa “vive” in un processo di attualizzazione permanente da parte dei consociati come mezzo di autorappresentazione culturale di una comunità politica, e come specchio della sua eredità culturale e fondamento delle sue speranze. E in una democrazia pluralista la leva di un patriottismo costituzionale repubblicano, come ha rilevato Gustavo Zagrebelsky su La Repubblica del 30 aprile, non è il principio obbedienza, ma il principio responsabilità, una svolta che segna l’Abschied da una concezione della costituzione declinata lungo l’antagonismo tra il cittadino ed il potere, e l’approdo ad una cittadinanza repubblicana innervata di pedagogia costituzionale.

Occorre dunque levare lo sguardo più in alto. Intere biblioteche, e soprattutto le lezioni dell’esperienza, ci insegnano che il diritto costituzionale è equilibrio. Equilibrio nei rapporti tra i poteri. Equilibrio nel firmamento dei diritti, che i tempi normali, e a maggior ragione i tempi dell’emergenza, sottopongono a tensioni, e spesso a “scelte tragiche”, che esigono soluzioni “ragionevoli”, come ammonì il justice Holmes nel celebre dissent sul caso Lochner. Soluzioni ragionevoli, ma, occorre ribadirlo, sempre nel solco dei valori fondamentali dell’ordinamento costituzionale. In questi giorni non è in gioco il diritto dei “sani” di fare jogging o di circolare liberamente. Né basta ricordare che il diritto alla salute coniuga in modo indissolubile diritto individuale e interesse collettivo. O osservare, infine, che al principio di precauzione va forse riconosciuta un’intensità diversa, quando si tratti della garanzia di diffuse regole di igiene e di salubrità della vita quotidiana o invece del contrasto alla pandemia.

Ma soprattutto occorre sottolineare con forza che oggi è in gioco il diritto alla vita, che, come ci hanno insegnato i grandi classici del costituzionalismo, Locke in testa, è il bene che condiziona tutti i diritti ed ogni possibile svolgimento della personalità. Perché in questo frangente, più che nel passato recente, il tema della vita acquista una centralità che va molto aldilà delle opzioni etiche o religiose (come era accaduto sulla questione dell’aborto), si ripropone in una materialità essenziale, quella delle decine di bare allineate sui camion militari, una materialità, uno zoccolo durissimo, questo mi sembra il punto decisivo e inedito, che fa della minaccia (globale e impermeabile alle alternative delle scelte economiche) al diritto alla vita ciò che rischia di far crollare come un castello di sabbia, e per sempre, tutti i diritti, dalle libertà individuali al diritto al lavoro, a quello all’istruzione alle libertà economiche.

In questo tempo non è in gioco l’interesse di singoli individui o di singoli operatori economici a poter continuare a svolgere, qui e ora, e senza restrizioni paralizzanti, le loro attività e ricavarne i vantaggi. Qui è in gioco la necessità di impegnarsi a fermare uno scenario che, in un futuro anche molto vicino, potrà recare un vulnus su larga scala e a lungo termine della dignità di ogni uomo, del benessere e della prosperità di tutti, ed anche della costanza nel tempo del diritto di arricchirsi (quell’“enrichissez-vous” evocato da Guizot come pilastro di un ordinamento liberale), e soprattutto di quella dignità sociale evocata solennemente dal nostro art.3. Diritto alla vita e dignità dell’uomo, questi sono i valori oggi in gioco, di fronte ai quali i consociati non sono Untertanen, “sottoposti”, come li definiva la vecchia dottrina tedesca, ma protagonisti di un processo di attualizzazione quotidiana dei valori costituzionali, nel segno di quella responsabilità solidale della persona, racchiusa nell’art. 2.

Anche questo fa parte di quegli equilibri coessenziali alla tenuta del sistema costituzionale, dei quali sono fattori essenziali la necessaria provvisorietà delle misure restrittive adottate e la loro proporzionalità, intesa non come mera adeguatezza ma come stretta necessarietà rispetto al fine di fronteggiare l’emergenza, aspetti sui quali è intervenuto di recente con grande chiarezza Augusto Cerri. Un approccio equilibrato al tema delle emergenze, ed allo stesso tempo consapevole che il contagio da Covid-19 non è l’artificio che maschera una involuzione autoritaria delle democrazie, e che ciò rende arduo, e forse mistificatorio, applicare i paradigmi teorici dello “stato di eccezione”, riproposti in queste settimane da Giorgio Agamben con indubbio fascino, ma elaborati su situazioni molto diverse, dalle guerre al contrasto al terrorismo politico.

È fuori discussione che, nella gestione della pandemia, la Costituzione costituisca la bussola e che ai suoi principi occorra restare fermi, come ha ammonito la presidente Cartabia. E senza trascurare che l’ispirazione della Costituzione repubblicana costruisce il principio libertà con un complesso gioco di equilibri, nel quale giocano il loro ruolo e con esso si coordinano il principio solidarista, la pari dignità sociale e l’eguaglianza materiale, aprendo ad un ventaglio di concordanze pratiche calibrate anche su contesti e frangenti inediti e non predicibili, e peraltro indispensabili alla soluzione delle conseguenze sociali della pandemia. Nel contesto per più di un aspetto drammatico della pandemia, appare più che mai attuale il monito dei nostri Padri costituenti, il quale concorre a immunizzare il principio libertà dai rischi di declinazioni egoistiche, spesso propugnate dagli indirizzi neoliberali che hanno avuto seguito nelle società contemporanee, e sui cui rischi nella situazione attuale ha di recente insistito Enzo Mauro su La Repubblica del 5 maggio. Così come la Costituzione repubblicana si è preoccupata embricare l’impianto dei diritti in un quadro di direttrici di orientamento, allo scopo di dotare gli individui “strumenti di navigazione” per esercitare la libertà nella loro esistenza, strumenti che non mortificano, ma favoriscono la realizzazione delle scelte individuali, come ha osservato di recente Cass R. Sunstein in un saggio Sulla libertà, pubblicato in questi giorni da Einaudi. “Strumenti di navigazione”, aggiungo, che non sono l’involucro paternalistico delle libertà individuali, ma condizione essenziale di un quadro di effettività dei diritti costituzionali. I diritti, tutti i diritti, anche quelli di libertà civile, hanno costi, come scrisse anni fa Sunstein, affinché possano dispiegarsi nella loro pienezza. E va detto che le difficoltà del momento discendono meno dalle restrizioni dell’emergenza che da distorsioni risalenti. E che la vicenda drammatica che stiamo vivendo ci mette dinanzi ai danni derivanti dal degrado e dalla mortificazione del settore pubblico. Ci misuriamo oggi con il dramma che sanità, scuola, servizi, ricerca scientifica, sicurezza richiedono risorse, strutture e apparati efficienti, ma siamo vissuti per anni nella sbornia neoliberale che si dovesse privatizzare tutto e che il pubblico fosse solo un bubbone da prosciugare.

In questa cornice assume un’indubbia centralità il tema del rapporto tra libertà e sicurezza, il quale è stato profondamente sconvolto dalle sfide della società del rischio, ma si presenta, nel frangente attuale, con caratteri dirompenti rispetto ai contesti che avevano ispirato Ulrich Beck, il terrorismo islamico, il precariato del mercato del lavoro, la frammentazione dei rapporti interpersonali e financo affettivi. Libertà e sicurezza esprimono istanze radicalmente differenti: se questa è assenza di rischio, l’altra causa e fa crescere situazioni di rischio; se, parallelamente, la protezione della libertà favorisce lo spostamento sugli individui delle decisioni, quella della sicurezza tende invece a spostare il fulcro della decisione sulla dimensione collettiva. La libertà ha infatti un’intrinseca attitudine ad accrescere la complessità e la contingenza delle situazioni ambientali: se invero il principio libertà è il motore della competizione, del progresso tecnico, dell’innovazione sociale, esso sviluppa contestualmente situazioni di rischio e riduce per converso il tasso di sicurezza.  Ciò pone sotto nuova luce il rapporto fra libertà e sicurezza, poiché il concetto di rischio rinvia a conseguenze negative prevedibili e governabili delle decisioni individuali, conseguenze che, peraltro, possono essere causate sia dalle proprie decisioni che da quelle altrui. Discende da questa premessa quello che è stato felicemente definito come “il paradosso della sicurezza”, da intendersi come bisogno generato dal conflitto fra decisioni individuali, ma anche come obiettivo intrinsecamente irraggiungibile e relativo. Un obiettivo che può proporsi l’ottimizzazione del governo delle situazioni di rischio, ma non la cancellazione di queste, se non al prezzo di trasformare lo stato in un soggetto che sa e può tutto e dunque in un fattore di soffocamento della libertà. La sfida della lotta al terrorismo internazionale dopo gli attentati dell’11 settembre ha dimostrato che occorre pensare, piuttosto che solo in termini di reazione contro concrete ed attuali situazioni di pericolo, in termini di governo complessivo di situazioni di rischio, e di valutazione delle condizioni e delle conseguenze della loro possibile concretizzazione: essa costringe, in breve, a disancorare il problema della sicurezza e la soluzione delle corrispondenti situazioni di crisi dall’applicazione di criteri lineari e deterministici di causalità, ed a muoversi all’interno di scenari complessi, per la difficoltà della individuazione degli attori e delle responsabilità, per la complessità di orientarsi nelle reti di collegamento gestite da tecnologie sofisticate, per la varietà delle modalità di offesa ai diritti individuali ed alla sicurezza. In definitiva, di fronte alla dilatazione della sicurezza derivante dalla necessità di prevenire situazioni di rischio, il principio libertà non è destinato a regredire ed a perdere il suo valore prioritario di guida, a condizione di conservare la propria capacità di orientamento nei confronti delle misure adottate in situazioni di emergenza. In questa prospettiva, sembrano giocare un ruolo decisivo da un lato un’interpretazione rigorosa dei canoni della necessità e della proporzionalità, finalizzati a lasciare off-limits molte misure estreme, e dall’altro la temporaneità delle misure straordinarie, che riesca a sbarrare la strada a restrizioni permanenti.

Il rapporto tra libertà e sicurezza nella Risikogesellschaft è, in definitiva, sempre governato dalla “ragione di costituzione”. E questa non coincide, negli assetti di democrazia pluralistica, con la “ragion di stato”, che  solo nella costituzione rinviene ad un tempo la legittimazione ed i limiti.  Sembra pertanto che la crescita delle domande di prevenzione nella società del rischio non comporti come unico sbocco la deriva del Präventionsstaat nel monopolio assorbente dello stato nella gestione delle situazioni di rischio. E’ questo, mi sembra, l’apporto più rilevante degli approcci comunitarian alla ricostruzione dei caratteri dei diritti fondamentali negli assetti di democrazia pluralistica. Essi offrono invero una griglia teorica per la comprensione degli strumenti e dei procedimenti di conoscenza e di gestione delle situazioni di rischio, dai quali dipende la realizzazione del bisogno di sicurezza, e che vedono i privati ed i poteri pubblici collocati sempre più spesso in relazioni di cooperazione. Nella gestione delle situazioni di rischio, i privati appaiono in definitiva, allo stesso tempo, destinatari di protezione e portatori di responsabilità.

Le riflessioni che precedono riconducono al punto dal quale avevo preso le mosse, quello della responsabilità della società civile come elemento caratterizzante di una cittadinanza repubblicana. Nella celebre conferenza su Die deutsche Republik del 1922, Thomas Mann additò nella “responsabilità comune” la contropartita della conquista della democrazia, la quale è “kein Spaß und Vergnügen”, poiché richiede ad ogni cittadino l’impegno, il Beruf, per mantenere saldo un “wir”. L’idea di una cittadinanza responsabile è presente, peraltro, nelle costituzioni delle democrazie pluralistiche, dalle clausole sulla responsabilità verso le generazioni future al richiamo, come nella nostra Costituzione, ai doveri inderogabili, alla fedeltà alla Repubblica, al dovere di difesa della patria. Principi sullo sfondo dei quali si coglie, come sostenne Peter Saladin, sulla scorta di Karl Barth e di Bonhoeffer, in un’opera ricchissima di suggestioni per l’oggi, Verantwortung als Staatsprinzip, un’etica della responsabilità capace di fondare un nesso più stretto (e più intensamente relazionale) con la socialità dell’uomo, rinviando non ad una Richterinstanz (di tipo verticistico) ma ad un Mit-handeln (agire- con). Contro la riduzione kelseniana della cittadinanza a sfera personale di applicazione delle norme, e contro l’archetipo di un “cittadino dormiente”, soddisfatto di abdicare al principio responsabilità, affidandolo alle istituzioni, è stata rivendicata la centralità di una responsabilità civica come Weckruf, come “sveglia” di una democrazia pluralistica. Mi sembra davvero questa, e meritevole di essere discussa nel tempo della pandemia, la lezione ancora attuale della Integrationslehre di Rudolf Smend, l’idea di una comunità repubblicana che si fonda sulla Leistung dei suoi cittadini, in uno spirito di responsabilità derivante dall’accettazione di valori comuni condivisi, che “fondano” l’unità politica e la comunità solidale dello stato.

In conclusione, sono convinto che siano questi i temi sui quali davvero converrebbe confrontarsi, alzando lo sguardo, nella consapevolezza orgogliosa, e ancora una volta vissuta con equilibrio, che le democrazie liberali dispongono ancora per fortuna, nel nostro paese e in gran parte dell’Europa, di efficaci antidoti, nelle istituzioni, nel sistema delle garanzie, ed anche nella società. In questo momento al costituzionalista non si chiede di levarsi come una Cassandra, ma gli si chiede un equilibrio responsabile. Una solida democrazia liberale non è esposta al rischio di misure emergenziali provvisorie e proporzionate. Soffrirebbe in modo letale di fronte ad una deriva improvvida e irresponsabile verso una catastrofe umanitaria.

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