L’emergenza sanitaria sta intensificando le complessità istituzionali del sistema e svelando alcuni nodi problematici rispetto ai quali è carente una risposta certa. Su un dato, tuttavia, si registra un’ampia convergenza. Di fronte ai rischi e ai pericoli connessi al dilagare della pandemia il decisore pubblico deve essere nazionale. Questa è l’indicazione che si ricava dal quadro costituzionale. Si può ritenere che tale legittimazione discenda dal Codice della protezione civile e dai decreti leggi emergenziali con cui è stato deliberato lo stato di emergenza di rilievo nazionale per sei mesi. Ovvero che avrebbero potuto essere impiegate (sebbene non sia stato fatto) le competenze esclusive statali in materia di profilassi internazionali per rivendicare gli interventi dello Stato contro le epidemie e il potere del Ministro della salute di adottare ordinanze di carattere contingibile e urgente in materia di igiene e sanità pubblica.
La situazione di carattere eccezionale giustificherebbe, in altre parole, il ruolo accentratore dello Stato. Malgrado ciò lo stato di emergenza ha intensificato le fratture e le lacerazioni tra centro e periferia, dimostrando ancora una volta come uno Stato unitario possa essere differenziato al suo interno sia in una dimensione fisiologica che in chiave patologica. Sotto quest’ultimo aspetto si possono citare casi, noti alle cronache, come quello della Regione Calabria che ha disconosciuto il d.p.c.m. del 26 aprile disponendo norme meno restrittive di quelle statali. Oppure fattispecie di governo della crisi sanitaria come l’ordinanza della Regione Lombardia nella parte in cui consente la consegna a domicilio da parte degli operatori commerciali al dettaglio di qualunque tipologia merceologica (e non solo per la vendita di generi alimentari e di prima necessità come stabilito dal decreto del Ministro dello sviluppo economico 25 marzo 2020). Oppure ancora l’ordinanza del Sindaco del Comune di Messina che ha richiesto l’obbligo di registrazione on line quarantotto ore prima di fare ingresso in Sicilia attraverso il Porto di Messina e di attendere il rilascio di un relativo nulla osta di spostamento.
Per completezza va aggiunto che i conflitti tra poteri costituzionali non sono una prerogativa dell’Italia. Anche in Germania si è aperta una competizione tra Stato e Länder data la situazione di stress a cui sono sottoposti i diritti fondamentali. Ma è una caratteristica del nostro Paese che le disfunzioni nel rapporto tra centro e periferia celino non una semplice dialettica tra istituzioni, ma un vero e proprio scontro istituzionale. Un combattimento in cui “la mancanza di un reciproco riconoscimento dei ruoli e delle rispettive difficoltà” – come evidenziato da Alessandro Palanza nell’intervento introduttivo – scatena “un circolo vizioso tra mancanza di riconoscimento, mancanza di autorevolezza e di capacità di azione e concertazione”.
Per prevenire uno scontro del genere è chiaro che sarebbe stato necessario un maggior coordinamento istituzionale. Non bastava “sentire” le Regioni attraverso il Presidente della Conferenza delle regioni e delle province autonome, come stabilito dal d.p.c.m. del 26 aprile. Sarebbe stata necessaria a monte una cabina di regia con le Regioni per la gestione dell’emergenza in modo da aprire a soluzioni diversificate per territori. Invece la situazione fattuale ha mostrato uno scenario diverso. I tentativi di coordinamento sono mancati ovvero hanno fallito. Le Regioni sono andate in ordine sparso con buona pace del principio di leale collaborazione, su cui dovrebbe fondarsi il regionalismo italiano ai sensi dell’art. 120 Cost., e del riconoscimento del ruolo unificante dello Stato centrale.
L’assenza di coordinamento e di mezzi di composizione pacifica degli interessi ha dato la stura ad un’ampia serie di conflitti. I conflitti si sono rafforzati per la radicale delegittimazione dei ruoli istituzionali. La delegittimazione è poi sfociata in richieste di accesso al giudice per iniziativa della Presidenza del Consiglio dei ministri o di altri apparati centrali reclamando di risolvere giurisdizionalmente la controversia. Di conseguenza il giudice amministrativo si è trovato ancora una volta a svolgere un ruolo di arbitro delle rispettive competenze normative e amministrative.
Riprendendo gli esempi sopra menzionati, il Tar Catanzaro (n. 841/2020) ha annullato l’ordinanza della Regione Calabria perché adottata in carenza di potere per incompetenza assoluta consentendo la ripresa dell’attività di ristorazione, non solo con consegna a domicilio e con asporto, ma anche mediante servizio al tavolo, purché all’aperto e nel rispetto di determinate precauzioni di carattere igienico sanitario. Il Tar Lombardia (n. 634/2020) ha sospeso l’ordinanza della Regione Lombardia sulle consegna a domicilio di qualunque categoria merceologica. Né è mancato il ruolo di consulente dell’esecutivo nel parere rilasciato dal Consiglio di Stato (parere n. 735/2020), in cui si afferma che è legittimo l‘annullamento straordinario a tutela dell’unità dell’ordinamento dell’ordinanza del Sindaco di Messina essendo necessaria una gestione unitaria della crisi per evitare che interventi delle autonomie possano vanificare la strategia di gestione dell’emergenza, in particolare quando ad essere limitate sono libertà costituzionali.
Si potrebbe andare avanti a lungo, dato che molteplici, a livello domestico, sono gli esempi di battaglie giudiziarie rispetto alle misure per la prevenzione e la gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19. Ma le guerre giudiziarie non sono un’esclusiva del nostro Paese. Esempio macroscopico di ciò (e senza precedenti) è la sentenza del Bundesverfassungsgericht (Tribunale costituzionale federale tedesco) del 5 maggio 2020 sull’eccesso di competenza della Bce nelle decisioni circa il Public Sector Purchase Programme (PSPP), in cui il livello di scontro tra istituzioni è stato irrobustito dalla perentoria affermazione che il tribunale costituzionale tedesco non è vincolato dalla Corte di giustizia, ma deve condurre il proprio riesame per determinare se le decisioni dell’Eurosistema relative all’adozione e all’attuazione del PSPP rientrino nelle competenze che le sono conferite dal diritto primario dell’UE e sindacare se tali decisioni siano supportate da sufficienti considerazioni sulla proporzionalità. Sono fenomeni per nulla originali, ma che sono acutizzati dalle circostanze attuali così drammaticamente avverse.
Come deve essere letta questa capacità auto-adattativa del sistema costituzionale tesa a garantire l’equilibrio dei poteri? Qui siamo di fronte ad un bivio. Per un verso, dovremmo rallegrarci delle battaglie giudiziarie, dato che le democrazie liberali sono migliorate e progredite proprio grazie ai conflitti costituzionali, i quali hanno permesso gradualmente di potenziare pesi e contrappesi. Per un altro, però, che lo scontro tra Stati e Regioni trovi di frequente composizione per il tramite delle sentenze del giudice amministrativo mostra la persistente centralità di questo organo giurisdizionale, chiamato a ricostruire l’esercizio del potere e l’assetto di interessi quali erano prima dell’esercizio del potere e quali risultano dopo l’esercizio del potere, scegliendo quali interessi e quali posizioni debbano prevalere nel caso concreto.
Nei casi citati, infatti, l’amministrazione centrale non cerca nella legge o nel farsi del procedimento la soluzione del conflitto, ma si rivolge al giudice e al processo per la soluzione dello stesso. Perdendo la spinta quale strumento di affermazione del diritto alla tutela giurisdizionale dei diritti, il processo amministrativo fa emergere elementi di fragilità del sistema che rischiano di esaltare eccessivamente la funzione del giudice stesso, comportando il pericolo di una riorganizzazione del processo decisionale pubblico nel senso di trasferire il potere al giudice e di svuotare la riserva di amministrazione.
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