Fino allo scoppio dell’epidemia da Coronavirus la questione del ruolo dello Stato era stata trascurata e svalutata a vantaggio di una filosofia angusta e autolesionista del primato del mercato e dell’iniziativa privata, le cui nefaste conseguenze il coronavirus ha reso visibili in modo eclatante nell’impreparazione con cui l’Occidente e il mondo sono arrivati al tragico appuntamento del dilagare dei contagi e dei morti, una causa non marginale della quale è stata il lungo privilegiamento della sanità privata a scapito di quella pubblica, ridimensionata e saccheggiata per decenni. Ora appaiono inadeguati a trattare la questione del rapporto Stato/mercato non solo gli approcci neoliberisti smaccatamente ostili allo Stato, ma anche approcci più tradizionali sostanzialmente coincidenti con l’idea che lo Stato debba a limitarsi a fornire alle imprese e al mondo produttivo attività regolatoria e incentivi indiretti (tra cui spiccano quelli fiscali) o con la convinzione secondo cui di politica pubblica (come quella industriale) si può correttamente parlare unicamente in termini di regole della concorrenza (antitrust, privatizzazioni, difesa dei diritti proprietari ecc.) o al massimo di finanziamento delle infrastrutture di base e della ricerca pubblica.
Un approccio molto più interessante ame pare quello che definisco dello Stato “strategico”: uno Stato più avventuroso e più disponibile ad assumere rischi della stessa iniziativa privata, certamente nella ricerca scientifica e tecnologica ma pure nei campi delle nuove domande sociali, innanzitutto di prevenzione e di salute, del risanamento ambientale, del riassetto dei territori e della riqualificazione urbana. Solo uno Stato “strategico”, infatti, è in grado di porsi i nuovi necessari interrogativi e di trovare risposte ad essi, uno Stato il quale, oltre che indirettamente – mediante incentivi, disincentivi e regolazione –, interviene direttamente, cioè guidando e indirizzando intenzionalmente e esplicitamente con strumenti appositi. Nell’avvicendarsi di tutti i grandi cicli tecnologici e nella spinta verso le innovazioni fondamentali – oggi con le tecnologie verdi, farmacologiche e sociali per l’avvio di un “nuovo modello di sviluppo” – l’intervento dello Stato si è rivelato e si rivela decisivo, non solo “facilitatore” e alimentatore di condizioni permissive, ma creatore diretto, motore e traino dello sviluppo. Come dice Mariana Mazzucato, in molti casi lo Stato non si è limitato a correggere i mercati ma si è impegnato per crearli. Questo è, del resto, l’impianto che sorregge il rivoluzionario Next Generation Eu, il piano lanciato dall’Unione Europea per uscire dalla recessione provocata dalla catastrofe pandemica, che non a caso ha il suo baricentro negli investimenti pubblici.
L’approccio dello Stato “strategico” aiuta, peraltro, a mettere in luce, oltre all’encomiabilità, anche un limite del ritorno di attenzione alla questione delle diseguaglianze: il mancato intreccio dell’analisi delle diseguaglianze con una osservazione degli elementi strutturali del funzionamento dell’accumulazione e della produzione del sistema economico capitalistico, il che dà luogo a una considerazione delle diseguaglianze come problema solo distributivo e redistributivo da trattare ex post (con il dilagare di bonus e trasferimenti monetari come il “reddito di cittadinanza”), non anche problema allocativo da trattare ex ante perché attinente al funzionamento delle strutture, dell’accumulazione, della produzione, per il quale dobbiamo pensare alla giustizia in termini allocativi. In questa prospettiva vedere i limiti degli approcci tradizionali, in particolare della teoria delle market failures e delle imperfezioni del mercato – che può, secondo Pierluigi Ciocca, “far erroneamente pensare a una rimediabilità ‘microeconomica’, mercato per mercato, delle contraddizioni” – è cruciale. Tale teoria, infatti, si fonda sull’idea che, quando si tratti di mercati perfettamente concorrenziali, questi bastino a se stessi. Invece ci sono molte situazioni in cui semplicemente i mercati non possono soccorrerci. E ciò è ancora più vero quando – come nei tempi presenti segnati dalla tragedia del coronavirus – la strutturalità della crisi fa avanzare l’esigenza di un’analoga strutturalità nel ridisegno della composizione della produzione e del modello di sviluppo, quando cioè le economie vanno rimodellate dalle fondamenta: il mercato non può domandare prodotti che nessuno sa siano possibili e, d’altro canto, non si può assistere immobili al manifestarsi delle implicazioni distruttive della crescita dell’economia postindustriale, analoghe a quelle che classicamente Polanyi descrisse per l’avvento dell’economia urbana industriale.
Secondo la visione standard tradizionale le imperfezioni, e relative esternalità, del mercato possono insorgere per varie ragioni, come l’indisponibilità delle imprese private a investire in “beni pubblici” – quali la ricerca di base, dai rendimenti inappropriabili e dai benefici accessibili a tutti –, la riluttanza delle aziende private a includere nei prezzi dei loro prodotti il costo dell’inquinamento il che dà luogo a esternalità negative, il profilo di rischio troppo elevato di determinati investimenti. Se ne deduce che lo Stato dovrebbe fare cose importanti ma limitate, come finanziare la ricerca di base, imporre tasse contro l’inquinamento, sostenere gli investimenti infrastrutturali. Collegate a questa teoria sono le tesi (per esempio di Sunstein e di Thaler) che il ruolo dello Stato dovrebbe essere prevalentemente di fornire “spinte gentili” (nudges) o di regolare cercando le regole più semplici possibili, assumendo che semplice sia equivalente a duttile, intelligente, libero, efficace, creativo. Ma uno dei difetti maggiori di tali teorie è che da una parte immaginano interventi pubblici “circoscritti” e “occasionali” (come circoscritti e occasionali sarebbero i fallimenti del mercato) mentre essi nella realtà sono “pervasivi” e “strutturali”, dall’altra parte ignorano un elemento fondamentale della storia delle innovazioni: in molti casi decisivi il governo non ha soltanto dato “spintarelle” o fornito “regolazione”, ha funzionato come “motore primo” delle innovazioni più radicali e rivoluzionarie e della creazione di lavoro.
Dopo la pandemia è diventato ineludibile l’intreccio “ruolo dello Stato/nuovo modello di sviluppo/rilancio della problematica del lavoro”. Riscoprire oggi il ruolo dello Stato e delle istituzioni pubbliche significa riscoprire l’ispirazione autentica del New Deal di Roosevelt e dei Piani del Lavoro. La problematica Stato/mercato, pertanto, va ben al di là di se stessa. Perché questa è la vera sfida odierna: puntare o meno su una “riforma” in grande del capitalismo, una riforma profonda, come quella che si delineò ai tempi di Keynes, quando una radicalità inusitata di progettazione teorica e di critica ideologica congiunse il pensiero innovativo keynesiano alle rivoluzionarie iniziative di Roosevelt e al riformismo radicale europeo – il laborismo inglese ispirato da Beveridge e la socialdemocrazia scandinava – che si opponevano, anche idealmente, ai totalitarismi. Solo così si può tornare a prendere nuovamente sul serio l’obiettivo della piena occupazione – eluso dalla maggior parte dei paesi OCSE dagli anni ’70 – facendo sì che i governi offrano anche “lavoro pubblico garantito” agendo come employer of last resort, secondo le indicazioni di Keynes, Minsky, Meade, Atkinson e tanti altri, idea che è nel programma con cui Joe Biden ha vinto le recenti presidenziali americane.
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