Tribuna

Giovanni Farese

“Ricci” e “volpi” di Stato e di mercato

 

L’economista Dani Rodrik ha in anni recenti riproposto un’efficace immagine di Isaiah Berlin: i ricci e le volpi: “I ricci – scrive Rodrik – sono conquistati da un’unica idea – i mercati funzionano al meglio, i governi sono corrotti, l’intervento dello Stato nell’economia è controproducente – che applicano incessantemente. Le volpi, di contro, mancano di una grande visione e coltivano sul mondo molte idee differenti, alcune in contraddizione tra loro”[1]. Forse non è inutile ricordarlo nel momento in cui l’aggiustamento dei pesi relativi dell’economia pubblica e dell’economia privata indotto dalla pandemia ha riproposto, in Italia, l’antico e mai sopito dibattito tra Stato e mercato. Sia detto subito: la contrapposizione, se tale, è in certa misura inutile e sterile, se solo si riflette su ciò che affermava Guido Carli e cioè che “non esiste un sistema così intensamente pianificato quanto l’economia di mercato”. In Italia, proseguiva Carli, “l’economia di mercato è praticamente inesistente proprio perché del pari è inesistente ogni elemento di programmazione generale. Forse che l’economia americana – si chiedeva – non è “programmata”?”[2]. Ovviamente, tutto sta a intendersi sul significato della parola “programmazione” – un terreno scivoloso sia sul piano storico sia su quello teorico, ma in certa misura ineludibile. Proviamo dunque a inerpicarci lungo questo sentiero.

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Che cosa è avvenuto con la pandemia? Ha scritto Sabino Cassese: “La pandemia ha fatto riprendere quota all’Etat puissance (lo Stato-potere), ha fatto ampliare il suo golden power (il potere di autorizzare gli investimenti stranieri), ha accresciuto il debito pubblico, ha spinto a chiudere le frontiere, ha prodotto una drastica riduzione del traffico internazionale, ha ridotto il commercio internazionale di beni e servizi, ha indotto le imprese a ridurre le global value chain (le catene globali del valore che consentono di decentrare la produzione nei paesi dove i costi sono inferiori)”[3]. Si aggiungano, sul piano europeo, l’adozione di un Temporary Framework che deroga in materia di aiuti di Stato, i programmi di acquisto di titoli del debito pubblico da parte della Banca Centrale Europea, l’emissione di titoli di debito comune, la sospensione dei parametri fiscali relativi al deficit e al debito pubblico. Alcune scelte sono doverose, altre promettenti se porteranno a un ripensamento di vecchi schemi e troveranno una convinta adesione in sede politica una volta finita la pandemia. Ma ce n’è abbastanza per risvegliare vecchie nostalgie e altrettanti vecchi timori. Chi non ha letto le quotidiane (e a volte storicamente superficiali) ingiunzioni volte a scongiurare il formarsi di una “nuova IRI”? Chi del resto può negare che lo Stato e le sue amministrazioni abbiano dato, nel loro insieme e fatte le dovute eccezioni, pessima prova di sé nella gestione del denaro pubblico? E chi, d’altra parte, può dimenticare l’antica e spesso pregiudiziale ostilità di una parte dei privati per ogni forma di intervento pubblico? Non si tratta di distribuire torti e ragioni, ma di ragionare su condizioni e contesti.

Il dibattito va portato, al lume della Storia – disciplina colpevolmente marginalizzata[4] e che insegna anzitutto la phrònesis (una prudente saggezza) – al di fuori delle reazioni emotive e, se possibile, ponendo le conseguenti azioni sul binario della continuità delle scelte strategiche di fondo. Non vi è grande paese, né in Europa né altrove, in cui l’economia non sia sorretta da una forte componente pubblica e da una altrettanto forte componente privata. È così – dovrebbe essere così – anche in Italia: per le caratteristiche strutturali, che impongono l’“economia aperta” (per la carenza di materie prime e la necessità di i mercati di sbocco); per quelle di relativa debolezza del mercato, anche finanziario, che ha storicamente richiesto forme di intervento pubblico, anche nella canalizzazione del risparmio verso gli investimenti produttivi. Si pensi a tre momenti: all’età giolittiana (INA), agli anni Trenta (IMI, IRI, Legge bancaria), all’età degasperiana, che conferma, sostanzialmente, gli assetti del passato e li consacra nell’articolo 47 della Costituzione.

La nuova costituzione economica emersa negli anni Ottanta e Novanta del Novecento ha segnato il passaggio dallo “Stato imprenditore” allo “Stato regolatore”[5]. Ma non ha fatto venire meno quella duplice esigenza di fondo: da una parte la necessità di scelte nel tempo coerenti per sorreggere e sospingere gli elementi di tenuta di un sistema aperto di relazioni internazionali (dall’Europa in su) di cui il sistema produttivo ha un bisogno vitale; dall’altro, la necessità di puntellare, anche con strumenti pubblici, la mobilizzazione del risparmio a fini produttivi, specialmente a favore delle medie imprese esportatrici. Occorrerebbe privilegiare forme di garanzia per il capitale di rischio rispetto all’ingresso diretto nel capitale delle aziende. Ha affermato di recente il presidente della Consob, Paolo Savona: “La soluzione di far beneficiare il capitale di rischio della garanzia statale, entro limiti e condizioni predeterminati, ma attuata in tempi brevi e in forme chiare e semplici, eviterebbe un ritorno non meditato dello Stato nelle imprese e garantirebbe ai piccoli risparmiatori di godere di garanzie capaci di azzerare il rischio delle proprie scelte per un periodo predeterminato; essi beneficerebbero inoltre dei vantaggi di una ripresa produttiva da parte delle imprese alle quali affidano i loro risparmi nel caso in cui gli investimenti avessero successo. Lo Stato spenderebbe certamente meno di quanto non faccia erogando sussidi a fondo perduto, compresi quelli destinati a imprese che non hanno possibilità di sopravvivenza”[6]. Negli anni Trenta, nel contesto della grande depressione, le obbligazioni convertibili e garantite dallo Stato, pensate da Alberto Beneduce per incentivare la canalizzazione produttiva del piccolo risparmio, costituirono una risposta all’incertezza.

Ciò non significa che, in alcuni casi, lo Stato non possa essere anche “innovatore”[7]. Fu così nella prima stagione dell’IRI, quella di Beneduce. In astratto, quella dello Stato innovatore è una buona idea; poi deve essere calata nei contesti nazionali (il rischio: “le théorème va bien, le problème va fort mal”, come avrebbe detto l’abate Galiani) e nel caso dell’Italia fare in particolare i conti con il depauperamento dell’autonomia e delle competenze che allignavano un tempo nell’economia pubblica. Ricostruirle – anche in una chiave europea di nuova politica industriale – potrà, se dovrà, essere un lavoro di lunga lena, da perseguire in aree ben circoscritte e con visione di lungo periodo. Occorre ricordare, con Keynes, che l’intervento pubblico dovrebbe essere affidato a quelle persone che più di altre sono diffidenti rispetto ad esso (à la Donato Menichella) tanto quanto lo sono di ciò che David Lilienthal, il padre della Tennessee Valley Authority e buon amico dell’Italia, chiamava “fake private enterprise”, la finta impresa privata, quella che privatizza i profitti e socializza le perdite[8]. Attenzione: c’è anche una “fake public enterprise”, quella che dimentica i criteri di autonomia ed economicità per servire scopi clientelari. Sempre Guido Carli ricordava che il problema non è tanto la natura del capitale, privato o pubblico, ma appunto l’economicità e razionalità della gestione dell’azienda[9]. “Il problema – scriveva già nel 1937 Sergio Paronetto, una delle massime intelligenze dell’IRI e attore di primo piano nella sua trasformazione in ente permanente – non è quello di creare nuovi enti”, ma di mentalità, cioè “degli uomini con cui affrontare e risolvere il problema”[10].

La soluzione richiede, in altre parole, una buona dose di empiria, forse perfino di fortuna: ma il potere del caso si combatte in certa misura con la conoscenza e la rettitudine, le mani competenti e disinteressate. Ed “è appena il caso di ricordare – ha ricordato una volta Enrico Cuccia, alfiere del capitalismo privato ma ammiratore del primo IRI – che Beneduce volle che l’incarico da lui tenuto di presidente dell’IRI non fosse rimunerato”[11]. Perfino Keynes, alla fine della sua esistenza, a fronte del rigonfiamento dei compiti dello Stato indotto dalla guerra e dall’immeditato dopoguerra, “si orientò di nuovo – ci informa il suo primo biografo, Roy Forbes Harrod – verso Adam Smith e le grandi verità che predicava. Certo, erano verità; ma per lui, negli anni recenti, erano state sommerse da quelli che sembravano i problemi più urgenti della disoccupazione di massa e della depressione economica. Fintanto che gli attuali seguaci di Adam Smith insistevano a non riconoscere questi nuovi problemi, egli non ne avrebbe predicato il vangelo”[12]. Ma se il pendolo dopotutto avesse oscillato con violenza verso l’altro capo, allora egli avrebbe ingaggiato una nuova battaglia in nome del liberalismo: quello vero, quello che cerca, e mai trova, il suo punto di equilibrio. Un equilibrio in cui irrompe oggi un fattore nuovo e più ampio: quello delle monete private in competizione con quelle pubbliche, destinato, se non ricondotto nell’alveo statale, a spaginare il libro dell’economia.

[1] D. Rodrik, Ragioni e torti dell’economia, Bocconi Editore, Milano, 2016 [ed. inglese 2015], p. 190.

[2] G. Carli, Intervista sul capitalismo italiano, a cura di E. Scalfari, Bollati Boringhieri, Torino, 2008 [1977], p. 114.

[3] S. Cassese, “Salviamo la democrazia”, La Lettura/Corriere della Sera, 31 gennaio 2021, p. 7.

[4] A. Prosperi, Una società senza Storia. La distruzione del passato, Einaudi, Torino, 2021.

[5] S. Cassese (a cura di), La nuova costituzione economica, Laterza, Roma-Bari, 2021 [1995].  Le ultime pagine, sui vecchi e nuovi strumenti di intervento statale, sono significativamente intitolate “The Era of Small Government is Over”, ivi, pp. 400-403.

[6] Discorso del Presidente della Consob al mercato finanziario, Roma, 16 giugno 2020, p. 22.

[7] M. Mazzucato, Lo Stato innovatore, Laterza, Roma-Bari, 2014 [ed. inglese 2013].

[8] D.E. Lilienthal, The Journals of David Lilienthal, 7 voll., Harper and Row, New York, 1964-1981.

[9] G. Carli, Cinquant’anni di vita italiana, a cura di P. Peluffo, Laterza, Roma-Bari, 1993, pp. 12-15.

[10] S. Baietti, G. Farese (a cura di), Sergio Paronetto e il formarsi della costituzione economica italiana, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2011.

[11] E. Cuccia, Un esempio inimitabile, in Donato Menichella. Testimonianze e studi raccolti dalla Banca d’Italia, Laterza, Roma-Bari, 1986, p. 289.

[12] R.F. Harrod, La vita di J.M. Keynes, Einaudi, Torino, 1965 [ed. inglese 1951], pp. 708-709.

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