Tribuna

Fabio Pinelli

Coglie certamente nel segno la riflessione di Paolo Ridola, allorquando evidenzia che nella società contemporanea l’endiadi libertà/sicurezza descrive un rapporto di proporzionalità inversa, nel senso che il crescente bisogno di sicurezza individuale e collettiva, fissato quale obiettivo che gli ordinamenti politico-giuridici occidentali devono perseguire, può comportare l’imposizione di necessarie restrizioni, rispetto ai consueti livelli di esercizio delle libertà cui siamo abituati.

Tuttavia, la caratteristica completamente nuova, nella quale la situazione pandemica in corso ha gettato la nostra società, è quella di aver ingenerato una condizione d’insicurezza globale e diffusa, come non la si era mai vista nell’esperienza politica, dal II dopoguerra in poi.

Comprensibile dunque che, rispetto alla domanda collettiva di sicurezza, la risposta della politica nazionale sia stata anzitutto quella di cercare di arginare il dilagare della pandemia, e quindi dell’insicurezza e della paura, limitando l’esercizio di determinate libertà. Si è trattato di una misura ritenuta necessaria, in negativo, quale condizione indispensabile per riuscire ad offrire un servizio di tutela della salute, in positivo, per assicurare cure all’altezza, a favore di tutti i soggetti che ne avessero manifestato il bisogno.

La prima riflessione suscitata da questa situazione riguarda tutti, in assenza di distinzioni territoriali e sociali: quel fertile terreno di esercizio delle libertà fondamentali, al quale, nelle nostre società occidentali, siamo abituati, è a ben vedere tutt’altro che scontato; bastano nemici infimi, senza eserciti e senza armi, per poterlo mettere in discussione. Sarà utile tenerlo a mente, a futura memoria, e non dare per ovvio ciò che, evidentemente, purtroppo non lo è.

Il quesito che, tuttavia, è necessario porsi, è quello di capire se esiste un limite, quantitativo, spaziale e cronologico, oltre il quale una democrazia costituzionale a matrice liberale non può permettersi di accettare la contrapposizione tra libertà e sicurezza, conculcando la prima in funzione della tutela della seconda.

La risposta a tale osservazione, che viene a mente in via pregiudiziale, non attiene né allo spazio, né al tempo e nemmeno alla qualità, bensì alle forme della disposta restrizione alle libertà fondamentali. Infatti, in una democrazia costituzionale, il primo limite essenziale allo spazio di compressione di esse è formale, nei soli casi, nei modi e con le garanzie stabilite dalla legge, come ricorda, ad esempio, la nostra Costituzione agli articoli 13, 14 e 15.

La situazione emergenziale, infatti, legittima certamente l’esercizio di determinate attività amministrative in deroga all’ordinario riparto delle competenze e ai limiti dei poteri, nell’ambito della Pubblica Amministrazione. Ma quando tali attività in deroga vengono esercitate sul presupposto di un’opzione politica così fondamentale e dirompente, com’è certamente quella della sospensione delle libertà costituzionali primarie (si pensi alla libertà di movimento, di culto, di iniziativa economica, solo per fare taluni esempi basilari), la verifica e la condivisione politico-democratica di tale scelta dovrebbe essere irrinunciabile. Se vengono sospese le tutele costituzionali essenziali, è innegabile che tale passaggio sia pregiudiziale e essenziale, anche in funzione della garanzia dell’eguaglianza di trattamento dei cittadini, in una prospettiva nazionale e unitaria che, ferme restando situazioni locali peculiari e contingenti, non può permettersi di differenziare l’esercizio di tali libertà fondamentali sul territorio nazionale per tempi indefiniti.

Da questo punto di vista, tuttavia, il contributo della politica democratica non può essere solo quello formale della condivisione, nell’immediato, dell’emergenza in corso. Esso deve certamente orientarsi, anche in senso sostanziale, con un’assunzione di responsabilità di sintesi: esistono interessi contrapposti tutti meritevoli di tutela, rispetto ai i quali, nel medio periodo, la pretesa di garanzia di sicurezza, anche se suggerita dalla scienza, non può permettersi di accettare il rischio correlato della disintegrazione del sistema sociale e del tessuto economico del paese.

La politica ha dunque il dovere, non solo della sintesi tra esigenze dell’economia e indicazioni della scienza, ma anche quello di mettere in campo interventi i quali, nell’ottica della tutela nazionale, sappiano affrontare e adeguatamente valorizzare le diversità e le peculiarità dei singoli territori. A ben vedere, infatti, anche la pandemia da Covid-19 si è rivelata come un’emblematica cartina di tornasole dell’articolata varietà delle situazioni locali del nostro Paese.

Infatti, aree del paese differenti, oltretutto in modo affatto trasversale rispetto alla annosa questione del divario nord/sud, hanno mostrato esigenze di sicurezza e di gestione dell’emergenza sanitaria completamente diverse. La diffusione del virus è fuor di dubbio molto insidiosa, perché non conosce confini; ma è errato pensare che tale evidente differenziazione possa essere gestita con una risposta unica su tutto il territorio nazionale.

Per converso, la capacità delle Istituzioni politiche e amministrative di prossimità di cogliere le specificità dei territori ha consentito di articolare risposte diverse, spesso adeguate alle esigenze di tutela dei cittadini.

Assicurati ugualmente a tutti e non in discussione i livelli essenziali di assistenza fissati dallo Stato, l’ambito di parziale autonomia amministrativa delle Regioni ha dimostrato di essere la risposta giusta rispetto al bisogno di sicurezza espresso da determinati territori.

Pensiamo alla Regione Veneto e al modello che è stato organizzato in funzione del contenimento della pandemia. Si è trattato di un’esperienza preziosa, da valorizzare, che può essere utilizzato come pilota, anche tenuto conto del fatto che esso si è sviluppato nella prospettiva della leale collaborazione tra gli apparati nazionali e regionali della Pubblica Amministrazione.

Del resto, in diverse realtà regionali i provvedimenti amministrativi più importanti, per il contenimento dell’esplodere dell’epidemia sul territorio, sono stati assunti di concerto tra i Presidenti delle Giunte regionali e il Ministro della Salute.

Nello specifico del Veneto, con la decisione della contingente “chiusura” rigida di un determinato territorio e del controllo, attraverso un’azione diagnostica a tappeto, del diramarsi del contagio, entrambi i livelli del governo del territorio, locale e nazionale, hanno mostrato grande capacità di saper cogliere le occasioni e le specificità della situazione, addirittura nonostante le indicazioni e le Linee guida del momento, sia quelle dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che del Centro Europeo per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie, non fossero in quella direzione.

Come sempre, a ben vedere, anche per la saldezza delle Istituzioni, la differenza la fanno gli esseri umani. Se le persone sono capaci, l’autonomia amministrativa si mostra come una strada che è utile da seguire in concreto, financo di aiuto per il Governo centrale, nell’ottica congiunta dell’unità nazionale e del riconoscimento, costituzionalmente imposto, della specificità e del valore dei singoli territori.

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