Tribuna

Anna Finocchiaro

Massimo Luciani, nel contributo apparso su questa rubrica, ha fatto riferimento al “sentimento del nostro stare insieme” come ad un fatto, e l’ha individuato come costitutivo dell’unità nazionale, prima, e direi oltre, ogni previsione costituzionale. Condivido il giudizio, ma aggiungo che, come sempre accade quando si ha a che fare con i sentimenti, sarebbe bene averne cura e nutrirli.

Senza tornare a discutere se il Risorgimento sia stata guerra di popolo o di re, deve comunque dirsi che la crescita del sentimento unitario italiano, che ne fu tratto identitario, sia dal punto di vista culturale che da quello politico, vada oggi, nel contesto repubblicano, guardata con rispetto e trattata con attenzione.

L’unità d’Italia è storicamente recente, e quel sentimento trovò terra e germogliò nelle trincee della Prima Guerra mondiale. Lì si trovarono a dividere la medesima – spesso tragica – sorte giovani uomini che non riuscivano ad intendersi, parlando dialetti reciprocamente incomprensibili, venendo da luoghi all’altro sconosciuti, e per i quali l’Italia per cui combattevano e morivano era un luogo astratto, assai lontano dalla loro esperienza di vita. In quei frangenti, tuttavia, essi maturarono una comunanza di vita e di sorte, oggi diremmo che scoprirono di condividere un’appartenenza.

In questo senso, ho sempre pensato che i mille e mille monumenti, tutti fra loro somiglianti, che in ogni paese, borgo o città d’Italia ricordano le vittime del primo conflitto mondiale siano una delle testimonianze più simbolicamente efficaci dell’unità nazionale.

Che oggi, come dice Luciani, il sentimento del nostro stare insieme sia “un fatto”, e che esso si sia manifestato indubbiamente tra i cittadini durante questo periodo di pandemia, non può esimerci dal compito di considerarlo con attenzione, tanto più perché dalla fase di crisi economica profonda in cui siamo sarà difficile uscire senza uno sforzo collettivo che riguardi l’intero Paese.

Ciò che non si è mostrato ugualmente come “fatto” è stato invece un regime di cooperazione tra Stato e autonomie.

La conflittualità accesa tra questi due livelli di governo ha, già ben prima della pandemia, nutrito la esuberante maggioranza dei conflitti agiti dinnanzi alla Corte Costituzionale, mostrando i limiti della riforma del Titolo V. I poteri nazionale e locali hanno invocato l’intervento della Corte più frequentemente di quanto si siano impegnati a ricercare forme più avanzate e stabili di collaborazione e coordinamento.

Nel 2016, il fallimento della riforma costituzionale ha ben mostrato l’ostilità nei confronti di un modello istituzionale che riordinasse le attribuzioni dello Stato e delle autonomie e desse alle Regioni una rappresentanza parlamentare. Molto credito ha avuto la posizione di chi paventava, in caso di approvazione, una “deriva autoritaria”, la irrimediabile violazione del principio di rappresentanza democratica, e concludeva di fatto per la difesa del sistema di bicameralismo perfetto e per il perdurare della conflittualità. Questo, naturalmente, mentre il vento di delegittimazione del Parlamento, espressione della “casta”, e dei parlamentari, considerati profittatori continuava a soffiare impetuosamente, anche nel centrosinistra.

Una forza politica, originariamente secessionista , con all’attivo la partecipazione, in più riprese, a governi nazionali, ha scoperto il sovranismo in salsa italiana, nel contempo proficuamente occupandosi del tenere alta la tensione nella relazione tra Stato e almeno due Regioni del Nord, celebrando in particolare, e giustappunto, i successi raggiunti da queste ultime in materia di organizzazione sanitaria, e procurando in tal modo di indebolire la centralità dello Stato nazionale.

Tragicamente perdurante, in quanto storicamente strutturale, è stata la disparità, in termini economici e di godimento dei diritti sociali, tra il Nord ed il Sud del Paese.

Che, dunque, il sentimento di appartenenza ad un’unica comunità nazionale si sia manifestato in questi mesi con tanta evidenza, è un fatto prezioso: gli italiani hanno capito, e “sentito” di essere comunità, nonostante tutto. Ciascuno di noi, peraltro, conosce il rischio che nella difficoltà tornino a prevalere egoismi, localismi esasperati, difesa di interessi corporativi, rottura di relazioni e nessi, frammentazioni.

L’avere posto al centro della riflessione di italiadecide il tema dell’unità nazionale, come valore essenziale dell’assetto democratico costituzionale ha sollecitato i contributi di Massimo Luciani e di Cesare Pinelli, i quali, entrambi, hanno svolto considerazioni e avanzato proposte che condivido, nella ricerca di un nuovo quadro (ed un nuovo clima politico) nelle relazione tra Stato centrale ed autonomie. Questo di certo gioverà anche a sostenere ciò che abbiamo definito “sentimento nazionale”.

Io suggerirei di lavorare anche su due altri fronti.

Il primo è quello di rilanciare, come tema politico nazionale, come metro dell’agire pubblico e di quello privato e come patrimonio di consapevolezza collettiva quel senso del limite che percorre tutto il testo costituzionale in accezioni diverse, dall’equilibro tra i poteri, che impone limite al loro esercizio in ragione del rispetto delle attribuzioni rispettive e del mantenimento dello status di indipendenza o autonomia di ciascuno di essi, ai limiti ai diritti individuali, previsti in ragione di garantirne funzione sociale o uguale fruizione da parte di tutti i cittadini.

Questo senso del limite non è stato un metro che ha evidentemente governato il sistema di relazione tra Stato e autonomie, né è stato adottato, mi pare, nel dibattito politico.

In qualche modo esso è stato, in entrambi i casi, frainteso, o meglio non è stato letto, e agito, in piena aderenza allo spirito costituzionale.

Se nello Stato autoritario – e ancora per alcuni versi nello Stato liberale -, i “cordoni della borsa” dei poteri e dei diritti stanno in mano al dittatore o al sovrano, la Costituzione repubblicana ha la propria strutturale essenza nella separazione e nell’equilibrio tra i poteri, nel riconoscimento e nella garanzia dei diritti originari di tutti i cittadini, i quali non soffrono limiti alla propria libertà se non quelli funzionali al perseguimento dei fini della Costituzione.

In questo senso mi pare che il cittadino o la cittadina italiani, cui è stato chiesto un sacrificio assai significativo delle proprie libertà (ma anche dei propri affetti o del proprio benessere) pur senza “leggere un milione di libri” abbiano ben compreso, e adottato, il proprio senso del limite. Hanno, senza enfasi, orientato costituzionalmente la propria esistenza. Certo, innanzitutto a salvaguardia della vita e della salute di se stessi e delle persone care, ma nella consapevolezza che si trattava di uno sforzo collettivo, unitario, appunto, e che la interdipendenza fra i destini di tutti rendeva comune la responsabilità.

Il rapporto tra principio di libertà e principio di responsabilità che, come ci ha detto Paolo Ridola su questa Tribuna, è cardine della cittadinanza repubblicana, si è, semplicemente direi, incarnato.

Mi ha molto colpito che proteste e contestazioni (rade, in verità) ci siano state quando i provvedimenti adottati dal Governo o dai Presidenti di Regione apparivano limitare irragionevolmente quelle libertà. Giusto o sbagliato che fosse nei singoli casi, ciò che colpisce è l’esercizio di un sindacato di ragionevolezza, che è criterio principe della valutazione di legittimità costituzionale di ogni limitazione di diritti . Questo dice molto su di un senso del limite condiviso, ma allo stesso tempo consapevole e non passivo.

Il secondo fronte su cui lavorare attiene alla valorizzazione, nel dibattito pubblico, degli inderogabili doveri di solidarietà di cui ci parla l’art. 2 della Costituzione.

Mi è sembrato strano che mentre da ogni sede istituzionale, sia nazionale che locale si insisteva sulla necessità di arginare la diffusione del virus e di tutelare dunque la vita e la salute collettiva (non esclusivamente la propria), ricorrendo a misure tanto necessarie quanto certamente limitative di molte tra le libertà personali, e mentre molto tempo e spazio veniva dato a quest’ultimo tema, a nessuno sia venuto in mente di dire che ciò che si era chiesto agli italiani, e che gli italiani stavano ovunque compiendo era l’agire costituzionale dell’adempimento di un dovere di solidarietà, essenziale per la Repubblica.

Non solo, dunque, l’adempimento di un dovere dinnanzi ad un comando proveniente dall’Autorità, non solo la forzosa rinunzia ad un corredo di libertà, ma l’esercizio di una responsabilità pubblica, la partecipazione attiva nel garantire il bene repubblicano della vita e della salute collettiva.

Nominarlo sarebbe stato un modo per dare un altro senso al contributo costituito dai comportamenti virtuosi della sostanziale totalità degli italiani, riconoscendo in loro una identità costituzionale che stava operando civicamente, sostanziando un esempio di “patriottismo costituzionale”. Paolo Ridola direbbe “agendo come fattore di integrazione in una comunità politica”.

Nella mia lettura degli atti della Costituente, mi pare siano stati rari gli interventi sugli inderogabili doveri di cui all’art. 2. Il più vivo interesse mi pare essere stato dimostrato da Meuccio Ruini, che esplicitamente si rifaceva alla cultura politica repubblicana.

A me pare che l’art. 2, nel suo complesso, affermi l’unitarietà della Repubblica di più e meglio di quanto non faccia il solenne incipit dell’art.5 (“La Repubblica, una e indivisibile”), perché introduce il dovere di responsabilità degli uni verso gli altri, e dunque descrive, in una “trama fitta di diritti e di doveri” (Rodotà), il modello di comunità costituzionale, unita dai vincoli dell’affermazione e garanzia dei diritti che sono di ciascuno (sia come singolo che nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità) e dalla inderogabilità dei doveri reciproci. Un intreccio che definisce una responsabilità comune, che da corpo al fine comune di una società giusta, che sostanzia un comune destino. Abbastanza, direi, per sostenere la concezione unitaria della Repubblica.

Per questo penso che sarebbe già stato utile, in questo tragico passaggio di tempo, che nel dibattito pubblico fosse stato adeguatamente riconosciuto che gli italiani avevano agito assecondando un sentimento costituzionale unitario. E che lo avevano fatto fuori dal clamore dei conflitti istituzionali e, anzi, a dispetto di essi.

Commenti

  1. Bisognerebbe riconoscere che quel “sentimento” é stato profondamente “influenzato” dalle varie forze politiche che prima dell’unificazione (ma in misura maggiore subito dopo) hanno forzato una unità culturale in popoli dalle tradizione lontanissime. Una unità che ha stentato a lungo ad affermarsi. Pompata molto, dalla monarchia prima, dal fascismo poi. La grande tradizione unitaria italiana é in realtá giovanissima se paragonata ad altre storie europee. Giovanissima e ancora troppo fragile. Intristisce pensare che uno dei sentimenti che oggi unisce più gli italiani sia un populismo xenofobo. Intristisce e fa pensare. Come riaffermare tra i valori unificanti la solidarietà? L’accoglienza? La condivisione?
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